L’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, uno scrigno di preziose opere d’arte

Quando, dalla vita attiva e vorticosa della città, passiamo a quella calma e idilliaca di una solitaria villeggiatura, l’animo nostro rimane perplesso, le nostre orecchie rintronano ancora del rumore delle strade frequentate, ci pare ogni tanto di udire il vociare delle persone, o lo squillo dello smartphone. Non abituati al “silenzio verde”, ci giungono come carezze i gorgheggi degli uccelli e lo stormire delle fronde. Quell’inerzia in cui sembra immersa la natura ci stupisce, e spesso la nostra mente corre ai tempi antichi, quando la gente viveva in quei luoghi solitari e selvaggi nei quali oggigiorno si stenta a comprendere come abbia potuto adattarsi a passare la vita. Questi pensieri mi accompagnano ogni qualvolta faccio la mia visita a uno dei tanti monumenti antichi e ricchi di storia che esistono nel nostro territorio. Nell’appennino vogherese, a 687 metri di altitudine, abbiamo l’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, nel comune di Ponte Nizza, isolato in una chiostra di monti, tra boschi e verdi pascoli.

Quanta gioia ed emozioni mi pervadono quando, raggiunta la meta, incontro quelle mura imponenti e di austera bellezza, impregnate degli incensi di infinite cerimonie religiose, immerse in una natura che in maniera superba in ogni stagione sfodera i suoi infiniti incanti! Tra quelle mura dove per secoli hanno parlato e parlano il cielo, l’aria, ogni anfratto montano. Tra quelle sacre mura dove si respira un’aria intrisa di Superiori richiami e dove per secoli ha parlato e parla il silenzio: in quel silenzio dove così forte si sente la parola di Dio… 

La realizzazione del complesso abbaziale, come risulta dai documenti d’archivio, è da inserire tra gli inizi dell’XI secolo e la metà del XII.

Entrando si accede alla cosiddetta chiesa di Sant’Antonio. Qui si è piacevolmente impressionati dalla forma graziosa delle sue volte a crociera sostenute da un solo grandioso pilastro, sul quale sono gli affreschi di san Giovanni Battista, san Ruffino, san Gerolamo, sant’Innocenzo e altri. Anche le pareti e le volte sono totalmente affrescate: è un tripudio e un’esultanza di santi, come se si entrasse nel Regno dei cieli. Tutti gli affreschi risalgono al XV secolo, come testimoniano le didascalie sotto molte scene, e non recano firma; da sempre attribuiti alla scuola dei fratelli Manfredino e Franceschino Boxilio di Castelnuovo Scrivia, si pensa che possano essere stati realizzati da uno o più anonimi pittori (monaci?) a loro ispirati. Questi dipinti (foto1), come approfondirò nei prossimi articoli, sono la testimonianza di una produzione minore e periferica che esemplifica come, lontano dai centri vitali e dai fermenti della coeva cultura figurativa ufficiale, si seguivano schemi arcaici dove il racconto e l’immagine votiva venivano rappresentati in modo piano e semplice, entro i limiti di conoscenze tecniche tramandate dai secoli precedenti.

Foto 1

Il ciclo di Butrio si inserisce nel panorama figurativo dell’area oltrepadana-tortonese del XV secolo, caratterizzato in prevalenza da affreschi a carattere votivo: dipinto nel 1484, come testimoniano le didascalie sotto molte scene, che non recano però alcuna firma.

Caratteristica peculiare degli affreschi dell’eremo è l’arcaismo compositivo, una certa primitività e ingenua resa dei volumi, oltre a un’elementare costruzione delle prospettive con staticità, piattezza delle figure e assenza di profondità. Limiti, questi, che di per sé farebbero pensare che il ciclo possa risalire a un periodo precedente, e che la datazione (1484) sia stata inserita postuma durante ritocchi pittorici, se il sapiente uso di vivaci contrasti cromatici, la gentilezza di tratto degli incarnati e nei panneggi delle vesti, così come le stesse raffigurazioni scelte per le scene di più ampio respiro, non mostrassero una conoscenza, seppur superficiale, dei fermenti culturali ed artistici e delle linee di evoluzione della pittura della seconda metà del XV secolo in Nord Italia.

L’interno della chiesa di Sant’Antonio, la prima che si incontra entrando nell’Abbazia, come scritto nel precedente articolo, è totalmente ricoperto dalla decorazione pittorica.

Tra le tante opere merita un commento “L’uccisione del drago da parte di San Giorgio” (Foto 2), nella parete ovest, dove ben si esplicitano le caratteristiche degli affreschi dell’Eremo che ho prima indicato. L'opera raffigura il cavaliere san Giorgio mentre dall'alto del suo cavallo bianco sta infilzando, ferendolo, l’orribile drago alato che occupa a terra, in primo piano, quasi tutta la lunghezza del riquadro. Conforme al racconto della Legenda Aurea del beato Jacopo da Varagine (Varazze), arcivescovo di Genova, che la compose tra il 1260 e il 1298, la principessa, effigiata in secondo piano, trattiene con le mani la sua cintura con la quale tiene a guinzaglio il drago ferito che trascinerà in città, dove verrà poi ucciso dal santo per convertire la popolazione al cristianesimo.

Foto 2

La leggenda del Drago riprende l’assioma del cavaliere errante che, con grande generosità e umanità, sottrae la giovinetta alla morte, ideali ben palesati da Chrétien de Troyes nei Romanzi Cortesi, richiamando allo stesso tempo l’atavica lotta del bene contro il male. Una lotta vissuta all’epoca, come da molteplici parti menzionata, in forma diretta attraverso la Guerra Santa contro il mondo musulmano. Non a caso, la narrazione del santo contro il drago ha inizio intorno all’VIII secolo, quasi in coincidenza con l’avvio dell’espansionismo arabo verso il mondo d’Occidente.

L’aspetto stesso del santo, nelle rappresentazioni artistiche che si avvicendano a partire dalla metà del XII secolo, si accosta sempre di più a quello di un cavaliere Crociato, portatore, come incarnazione della chiesa trionfante, del vessillo di San Pietro, o come nel nostro caso, di uno scudo in cui è dipinta una croce rossa in campo bianco.

Dopo aver attraversato la prima chiesa di Sant’Antonio, si incontra la chiesa di Santa Maria, la più antica dell’Abbazia e risalente al 1050, priva di affreschi. L’unica opera pittorica è una Crocifissione eseguita dal sottoscritto più di vent’anni fa e posizionata come Pala d’Altare (Foto 3). Ho dipinto il Cristo crocifisso ancora vivente, prima ancora della ferita al costato inflittagli dalla lancia di un soldato, seguendo la volontà del Rettore dell'Eremo. Il volto di Nostro Signore, circondato da una tenue luce chiara, è rivolto verso l’alto, cercando in questo modo di trasmettere, oltre alla sofferenza, la compassione e la commiserazione per i suoi torturatori, mentre implora perdono al Dio Padre per l’umanità, per quegli uomini, che “non sanno quello che fanno”. Le membra e il corpo, dalle chiare tonalità, sono illuminati da una tenue luce proveniente leggermente dall’angolo superiore sinistro, secondo l’indicazione caravaggesca, a me particolarmente cara. I piedi, appoggiati su una mensola stilizzata, li ho sovrapposti, il destro sul sinistro e trafitti da un unico chiodo, come nel XVII secolo consigliava il grande Maestro spagnolo Francisco Pacheco nel suo trattato “Arte de la pintura”. Dai chiodi delle mani e del dorso dei piedi scivola un lieve rivolo di sangue. Qualche goccia di sangue anche sul viso e sulla parte alta del petto: non molto sangue, per non violare la sensazione di quiete.

Sul cartiglio sopra la croce, eseguita come fosse una pergamena srotolata, ho eseguito la scritta in latino: JESUS NAZARENUS REX JUDAEORUM. Per ornare le due ali laterali alla croce mi sono ispirato alle decorazioni irregolari che fanno da sfondo agli affreschi dell’abbazia. Sotto la croce ho dipinto una cartella dove, in modo non troppo visibile, ho posto la seguente scritta: “JOSEPH FRASCAROLI - ANNO DOMINI MMVI - PINXIT”.

Foto 3

Conclude il complesso chiesastico del monastero la chiesa di Sant’Alberto, che si sviluppa a sud delle alte due, realizzata dopo la morte del Santo fondatore dell’Abbazia, Alberto, avvenuta nel 1073; ad essa si accede tramite un piccolo passaggio. Qui si possono osservare, nel presbiterio, uno di fronte all’altro due affreschi a semicerchio tra i più belli e interessanti di tutto il complesso abbaziale. Nella parete nord si può ammirare, al centro della pittura muraria, la rappresentazione della Vergine Maria seduta su un trono ligneo che presenta alle spalle un tendaggio rosso ben decorato e che pare fissato, in alto, alla parete del fondo (Foto 4).

Foto 4

La Madonna tiene in grembo il Bambin Gesù, tra i Santi: alla sua destra, Alberto e Apollonia, e alla sua sinistra Lucia e Antonio. Il Bambino regge con la mano sinistra il globo crociato, che riconosce la supremazia di Cristo (rappresentato dalla croce) sul mondo e sui poteri terreni (la sfera) mentre con la destra indica Sant’Alberto, ritratto con il pastorale e un libro e vestito di un saio scuro, il cui cappuccio è come alzato a coprirgli i capo, sotto la mitria. A sinistra, inginocchiato ai piedi della Vergine, di dimensioni molto ridotte rispetto alle altre figure in segno di subordinazione, è effigiato il committente, che si è tolto il proprio copricapo. Al centro dell’opera, poi, sotto al trono è raffigurato lo stemma dei marchesi Malaspina, padroni del castello di Oramala: lo stemma è composto da un albero fiorito e stilizzato che campeggia su campo troncato di rosso e giallo oro.

Tutti i Santi sono raffigurati lievemente rivolte verso la Vergine Maria, e hanno lo sguardo rivolto verso lo spettatore. La resa prospettica è solo compiuta dalla collocazione dei quattro santi ad un livello più basso rispetto al trono; la scarsezza di espedienti tecnici ed espressivi è tuttavia, come del resto in tutto il ciclo pittorico dell’abbazia, parzialmente supplita dalla cospicua molteplicità di colori e dall’abbondante decorazione, misurate dalla morbidezza e fluidità del disegno, principalmente nelle pieghe e nei orli sinuosi dei mantelli, nella cura del modellato dei volti e nei dettagli con cui sono rappresentate le barbe e i capelli dei santi, spontanea ed ingenua espressione di una pur tentata ricerca del reale.

L’affresco è datato 23 settembre 1484, ed è stato commissionato dal signor Beltramino dei Marchesi di Sagliano, come si evince dallo scritto parzialmente in rovina nella cornice inferiore: «MCCCCLXXXIIII die XXIII septembris dbs Beltraminus ex Marchionibus de Saliano fecit fieri hoc opus ad honorem Beatae Mariae Virginis».

Sempre nel presbiterio della chiesa di Sant’Alberto si trova un bellissimo affresco rappresentante il Santo anacoreta che al cospetto del Pontefice si discolpa dell’accusa mossagli di non aver osservato il digiuno prima della Santa Messa, facendo il miracolo di cambiare l’acqua in vino (Foto 5).

Foto 5

Le figure di grandezza quasi naturale e la bella fattura ne fanno a mio avviso uno dei più pregiati lavori del tardo Medioevo esistenti nella diocesi di Tortona, ma anche la più singolare, trattandosi del più antico documento iconografico esistente nel quale è raffigurato il miracolo di Sant’Alberto. Questi, in piedi all’estremità sinistra della pittura, vestito di saio scuro, con il pastorale tenuto dalla mano sinistra e la mitria sul capo, è ritratto frontalmente nell’atto di benedire con la mano destra una brocca che gli sta portando un paggio. Alle spalle del Santo, sulla destra è una lunga tavola imbandita con brocche e bicchieri in vetro pieni di vino rosso, stoviglie e pagnotte, disposti secondo un’arcaica prospettiva; dietro di essa sono seduti, ritratti frontalmente, il Papa e tre cardinali. Il Pontefice, in posizione centrale, stranamente privo dell'anello piscatorio, indossa, sopra la lunga veste talare bianca, un ricco mantello giallo ricamato in rosso; porta sul capo la Tiara Papale, simbolo di massima sovranità in terra, ed ha la mano destra alzata in gesto di benedizione. Alla destra della mensa è un altro piccolo paggio dipinto di profilo, nell’atto di posare un bicchiere pieno di vino ed una coppa sulla tavola. All’estremità destra del riquadro, in primo piano nell’angolo inferiore, un terzo paggio è intento ad attingere l’acqua da un pozzo di pietra quadrato. È da notare, pur nella sua semplicità pittorica, il sentimento di osservazione naturalistica che si cerca di rappresentare nei particolari della mensa imbandita.

Con questo articolo termino i miei commenti sui più suggestivi affreschi dell’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, facendo una considerazione: il ciclo delle pitture murarie di questa Abbazia, spiegabile con la diffusione degli ordini religiosi e di devozione popolare, è un esempio di una vasta corrente di artisti operanti in quel territorio, che include, nel nostro caso con molti dubbi, i fratelli Manfredino e Franceschino Boxilio di Castelnuovo Scrivia, che operarono presso l'Abbazia di Rivalta Scrivia, la Pieve di San Pietro di Volpedo e anche nella chiesa di Samboneto, comune dell’Alta val Staffora i cui affreschi, come ho potuto appurare personalmente, sono del tutto simili a quelli di Butrio. In ogni caso, anche se non si conosce il nome dei frescanti e il livello artistico più che appartenere al primo Rinascimento, sembra avere una matrice tardo-gotica, (fase, quest’ultima, della storia dell'arte, collocabile tra il 1370 circa e buona parte del XV secolo) si deve ammettere che la tecnica dell’affresco è stata usata con cura e discreta maestria, segno che l’anonimo o gli anonimi artisti, potevano operare in una bottega abbastanza produttiva.

                                                                                                                  Giuseppe Frascaroli

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